IRENE TINAGLI
Tra i tanti limiti dei partiti italiani messi a nudo dalle recenti elezioni, ce n’è uno molto importante trascurato dalle analisi post-elettorali: la totale scomparsa di percorsi e criteri politici chiari per la selezione delle nuove generazioni di rappresentanti e amministratori. I partiti che in questi ultimi anni hanno brandito a più riprese il discorso del merito e della valorizzazione dei talenti nella nostra società hanno in realtà mostrato di non avere la più pallida idea di come valorizzare meriti e talenti al loro interno. Come ogni altra organizzazione, i partiti hanno due tipi di questioni da affrontare per il loro ricambio dirigenziale: da un lato individuare nuovi «talenti», dall’altro costruire percorsi che consentano a questi talenti di formarsi, affermarsi, sviluppare un proprio ruolo all’interno dell’organizzazione.
Pescando facce nuove nella «società civile»
I partiti più grandi e consolidati, che hanno i maggiori problemi di invecchiamento e ricambio delle loro classi dirigenti, hanno iniziato a capire l’importanza del primo di questi aspetti, ovvero di trovare facce nuove, magari pescando nella cosiddetta «società civile». Ma non hanno minimamente iniziato a interrogarsi sui tipi di percorsi e i criteri per la crescita, la valorizzazione, e il riconoscimento di queste nuove energie e competenze. In altre parole non si pongono la domanda fondamentale: una volta che si trovano questi nuovi talenti o presunti tali, cosa ce ne facciamo? Come ci assicuriamo che le loro competenze e le loro energie siano appropriatamente valorizzate, integrate e utilizzate nel partito? Perché è qui che sta il vero nodo della questione. Scovare e far emergere nuovi talenti è importante, ma poi? La frantumazione organizzativa dei partiti e il progressivo scollamento tra segreterie nazionali e segreterie locali fa sì che sia sempre più difficile costruire meccanismi e percorsi virtuosi all’interno dei partiti. Con il risultato che alla fine l’unico meccanismo di valorizzazione e riconoscimento diventa la candidatura al Parlamento, italiano o europeo. Lo abbiamo visto in entrambi i maggiori partiti italiani: nel PdL così come nel Pd. Facce nuove e fresche catapultate dal nulla ai massimi scranni del potere. L’apoteosi della meritocrazia, potrebbe pensare qualcuno. Forse. Ma le modalità in cui sono avvenute sono i sintomi di meccanismi anomali che hanno effetti devastanti sul funzionamento e l’organizzazione di un partito.
La candidatura come unico meccanismo premiante
Perché se l’unico modo per premiare un talento diventa la candidatura, si annulla ogni sforzo intermedio, si negano percorsi più articolati che consentano a ciascuna persona di far davvero crescere il proprio talento e sviluppare il proprio ruolo, che non necessariamente può essere speso al meglio in un’aula parlamentare. Ma nella logica della candidatura come unico meccanismo premiante ogni forma alternativa di riconoscimento diventa un fallimento per le aspiranti nuove leve che sanno di poter legittimamente aspirare al massimo. Si innesca così una competizione interna che rischia di compromettere ogni tentativo vero e sincero di collaborazione e unità . Una competizione poco salutare perché incentrata essenzialmente sulla possibilità di farsi notare da qualcuno ai vertici, col rischio di far diventare secondario o superfluo l’impegno quotidiano speso nei rispettivi ambiti di lavoro, professionali, politici o amministrativi. La candidatura in questi casi diventa quindi il premio di un merito, sì, ma porta con sé una grande ambiguità di fondo: quale merito viene premiato? Il merito della competenza e di ciò che si è costruito con tempo e fatica o semplicemente il merito di essere riusciti a farsi notare? Idealmente entrambi, come probabilmente è stato per il caso più eclatante di Debora Serracchiani. Ma se il caso resta isolato c’è un forte rischio che il messaggio che passa sia il secondo: ovvero che l’unica cosa che conta è trovarsi al posto giusto nel momento giusto.
Un patrimonio di energie e competenze
I partiti, e in particolare il Partito democratico su cui erano riposte le maggiori aspettative di rinnovamento, devono dunque fare in modo che il caso isolato diventi un meccanismo più ampio e diffuso, che apra le porte a più persone e a percorsi più articolati, ricchi e gratificanti nell’attività politica. Solo così sarà possibile mettere veramente a frutto quel patrimonio di energie e competenze nuove tanto evocato a parole quanto ignorato nei fatti. Se così non sarà , il Paese resterà inchiodato a una «serracchianizzazione» della politica che vede di volta in volta esaltare, premiare e rapidamente bruciare una nuova Marianna, una nuova Debora e così via di elezione in elezione. Il rischio vero di questa tendenza è che a dettare i giochi della politica restino i vecchi dinosauri, quelli nascosti dietro i volti nuovi, discreti ma eterni, inamovibili. O forse è proprio questo l’obiettivo?